La mia nonna porta sempre le maniche lunghe.
Anche quando è caldo e tutti fanno acqua dalla fronte, lei tiene su quel
golfino nero bordato di merletto sul davanti. La mia nonna il caldo non lo
soffre. Il freddo, neanche. E non ha mai fame e non si lamenta e non è come
tutte le altre nonne, a cui fanno cilecca le ginocchia. La mia nonna, anzi, lei
mi porta in braccio quando svoltiamo l’angolo e mamma non ci vede più dalla
finestra. Dice sempre che io sono nata stanca. Lei stanca non lo è mai, un
tran-tran continuo, un ciuf-ciuf di vaporetto, ora è nell’orto, ora in cantina,
adesso in soffitta, adesso in cucina. È dappertutto, in tutti i posti insieme,
anche se fa finta che non è così. E se io le dico, ‘Nonna, ma ti ho vista
adesso adesso giù in cantina’, lei risponde, ‘Non è possibile, sono sempre
stata qui.’ È possibile, invece, lei è in tutti i posti, fa tutte le cose lei,
ma a me non vuole insegnarmi come si fa.
La mia nonna ha i capelli grigi tutti tirati
sulla fronte e premuti fitti fitti in una treccia. La treccia è appuntata sul
dietro della testa e sembra il bordo di pastafrolla di una crostata. Gli occhi
sono piccoli, azzurrini e aguzzi. Indovinano sempre tutto. Le gambe, le
braccia, la pancia è tutta asciutta, come se Furia, il nostro cane, le avesse
spolpato via gli ossicini.
Certe volte andiamo alla fontana e allora mi
carica sulla carriola e spinge. Non sbuffa mai e non si rimbocca le maniche. Neanche
quando sbatte le lenzuola sul gradino di pietra della vasca, neanche allora,
no, non le rimbocca mai. I polsini si bagnano tutti, ma lei non ci fa caso. E
quando si porta una mano alla fronte per tergere il sudore, neanche allora, le
maniche son tutte tirate giù.
E a questa cosa non ci avrei mai fatto caso se
non fosse che oggi nonna è morta. L’hanno trovata nel letto, su un fianco, che
dormiva un sonno un po’ più lungo. A me non volevano farla vedere. Ma poi papà
ha detto, ‘Non è così piccola, può capire’, e allora mi hanno lasciata entrare
dentro la camera. Sul baule ai piedi del letto c’era la bambola che c’è sempre,
una bambola di porcellana grossa, castana, tutta vestita, che ti fissa cogli
occhi di vetro che non capisci mai dove guardino. Sopra, appeso al muro, c’è il
quadretto con Santa Rita a mani giunte. Dal quadretto penzola un rosario con le
perline celesti. La nonna era stesa sulla coperta. Era pettinata bene e non
aveva più quel golfino. Le avevano messo una giacca nera nera, con dei
bottoncini dorati. Le mani non gliele avevano ancora composte (perché mi hanno
detto che i morti si compongono,
anche se non ho capito come si fa; mi hanno detto anche – è stata Anna – che si
de-compongono, ma proprio non ci ho
capito niente. Sembrano tutte cose per le costruzioni e non mi fanno senso).
Le mani e le braccia, insomma, stavano ancora
lungo i fianchi, tutte rigidine e fredde, riscaldate dalle maniche della
giacca. Mi sono avvicinata alla sponda del letto, ho preso una mano e ci ho
messo sopra un bacio. Il bacio non è restato lì sopra, ma è entrato dentro e io
so che nonna l’ha sentito. Papà dice che è questo che succede quando siamo
vecchi e siamo diventati nonni. Io so che tutti diventano vecchi, ma non tutti
diventano nonni e quindi, se non si diventa nonni, che succede, si muore a
metà? Forse si muore più scontenti, non lo so. La nonna aveva quasi un sorriso.
Era carina.
Ma quando il bacio è sparito e ho riappoggiato
la mano sul copriletto, la manica si è scostata un pochino e sull’avambraccio bianco
bianco, sodo, striato di viola, ho letto una sfilza di numeri che non li avevo
visti mai. Era un numero lungo, con le migliaia e le decine di migliaia e a
scuola non li abbiamo ancora fatti, così non lo sapevo leggere. Era un numero
così grosso che ho pensato, ‘La nonna deve essere qualcosa di enorme!’
Quando papà ha visto cosa facevo, mi ha
appoggiato la mano sulla spalla e ha detto, ‘Metti giù’, come se avessi rubato
qualcosa. E anche a me sembrava di aver rubato qualcosa, per cui ho messo giù
subito. Era una cosa che non si doveva toccare, eppure mi sarebbe piaciuto
passare un dito su quei numerini in rilievo per capire com’erano stampati.
Mamma dice sempre che mi ammazza se da grande mi faccio un tatuaggio, ma la
nonna un tatuaggio ce lo aveva, e nessuno le ha mai detto niente.
Papà ha detto, ‘Usciamo’, e mi ha portato di
sotto in giardino. Ci siamo seduti sul muretto, tutti e due con le gambe
penzoloni. Allora ho pianto, perché era una giornata di sole tanto bella e non
si poteva andare alla fontana dentro la carriola. Non ci si sarebbe andati più.
Papà mi ha detto di non piangere, perché sono
cose che succedono. ‘Anzi, puoi piangere. Ma non essere arrabbiata. Sono cose
che succedono ed è meglio che succedono così che in altri modi.’
‘Così come?’
‘Così che neanche te ne accorgi.’
‘Però non puoi salutare nessuno.’
‘Non fa niente. Lo sappiamo che ci vogliamo
bene.’
‘Perché la nonna ha un tatuaggio?’
‘Non è tatuaggio.’
‘E cos’è?’
‘Un marchio.’
‘Perché la nonna ha un marchio?’
‘Gliel’hanno fatto quand’era giovane e stava a
Trieste. Durante la guerra, quando c’erano i tedeschi.’
‘Me lo racconti?’
‘Non c’è niente da raccontare. La nonna era
andata sulle montagne a fare la guerra per non farsi prendere dai tedeschi. Ma
i tedeschi l’hanno presa lo stesso, insieme a Ginetto, che era suo fratello.
Mio zio. Ginetto era sciancato a una gamba e non poteva camminare, così i
tedeschi non hanno perso tempo e l’hanno ucciso subito, sotto gli occhi della
nonna. La nonna invece l’hanno messa su una camionetta e poi su un treno e poi
via, su, su, lontano, fino in Polonia. È lì che le hanno fatto il marchio.’
‘E cosa c’è andata a fare in Polonia?’
‘Stava in un campo di concentramento.
Auschwitz, un posto brutto. Erano tante persone, tutte magre magre come lei e
le facevano lavorare e lavorare. E quelli che non potevano lavorare li
uccidevano. Loro, però, non morivano come la nonna, ché si accorgevano molto
bene che dovevano morire.’
‘Come morivano?’
‘Questo un’altra volta. Sennò la storia la
sciupiamo tutta.’
Io volevo sapere di più, ma papà mi ha messo
una mano sotto il mento e mi ha dato un bacino in fronte. Poi è andato ad
aiutare mamma, ché dovevano comporre la nonna. Così adesso io sto seduta a
cavalcioni del muretto e mi domando perché la nonna non mi ha raccontato mai
dei numerini. Sarebbe stata una storia tanto bella che la sarei stata a sentire
da cima a fondo. Ma forse alla nonna non piaceva raccontarla ed era per questo
che portava sempre le maniche lunghe. Io invece questa storia voglio
raccontarla, perché mi piace tanto. Ed era un po’ matta la nonna a nascondere
un tatuaggio così, ché non c’è vergogna a essere andati a lavorare in Polonia. Ma
perché facevano i tatuaggi, poi. Non lo so, ma se io avessi un tatuaggio così,
lo vorrei sulla fronte e non lo coprirei coi capelli e racconterei ai miei
figli e ai figli dei miei figli quando e dove me l’hanno fatto. E sarei vecchia
e sarei nonna e morirei che neanche me ne accorgo.
Mia nonna, però, portava sempre le maniche
lunghe.
Un
grazie all’ignaro passeggero triestino da cui ho raccattato questa storia.
Di Chiara Pagliochini
Lo sai che sei davvero brava, no? :)
RispondiEliminaMi hai fatto commuovere.
RispondiEliminabrava...
RispondiEliminaSoave lievità, come un fiore, come la nonna.
RispondiEliminaTi continuerò a seguire. Grazie. M.A.
Dolce e profondo
RispondiEliminasei davvero brava! (ma togli quella robaccia da interpretare, chè io ho gli occhi peggio di quella nonna con le maniche lunghe ...)
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